Dal fondo dello stagno stelle fisse, risuonando attraverso Sylvia Plath
Attraversare i versi di un poeta è per me, sempre, il tentativo di farmi strumento della Poesia, della Voce, annichilendo virtuosismi e ricami, facendo spazio. È, al contempo, l’accostarmi con compassione a una vita, a una biografia, a un’unica particolare voce.
La voce di Sylvia Plath attraversa e di fatto ribalta la sua biografia, riassunta in quell’immagine violenta e terminale della sua vita che tutti abbiamo davanti agli occhi: la colazione per i figli, la decisione di farla finita, il forno.
La sua voce è piuttosto l’eco di una mente che crea con spirito beffardo, lasciandosi alle spalle la persona che ha sofferto. Sono le poesie che noi ascoltiamo, non il poeta. La sua lingua assume con ebbrezza il ruolo di governatore. Individua la sorgente là dove le stelle fisse si riflettono e trasmettono i loro segnali spontanei e misteriosi. C’è in questi versi, come ha scritto Seamus Heaney, «un senso di arrivo stupefatto, di un esistere meravigliato, il galoppo sfrenato di un cavallo imbizzarrito».
Quel bagliore, quella vitale risonanza sarà il luogo del nostro incontro.
Suono: Fabio Cinicola, rielaborazione di frammenti da Key di Meredith Monk.
Grazie per la cura a Cesare Ronconi, Mariangela Gualtieri, Teatro Valdoca.