"Si può perdere tutto, ma non un'anima che Cristo ha conquistato con il suo sangue."
- Anno
- 2023
- Genere
- Drammatico
- Regia
- Marco Bellocchio
- Soggetto
- Libro di Daniele Scalise
- Sceneggiatura
- Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli
- Produzione
- Paolo Del Brocco, Simone Gattoni, Beppe Caschetto
- Fotografia
- Francesco Di Giacomo
- Montaggio
- Francesca Calvelli, Stefano Mariotti
- Musiche
- Fabio Massimo Capogrosso
- Scenografia
- Andrea Castorina
Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al “Papa Re” Pio IX. La motivazione ufficiale fornita dal Diritto canonico è che a sei mesi il bambino era stato battezzato e dunque non può che ricevere dalla Chiesa un’educazione cattolica che lo “liberi dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei”. I genitori di Edgardo, Momolo e Marianna, non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Ma Pio IX non teme la disapprovazione di nessuno, rispondendo alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia con un “non possum” e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. E nonostante il clima sia quello risorgimentale la Chiesa rimane inamovibile, contando sulla sua sedicente inviolabilità.
Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l’interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l’azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.
La fonte letteraria è “Il caso Mortara” di Daniele Scalise, cui si ispira la sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, e la perfetta ricostruzione di quel tempo (lo scenografo è Andrea Castorina) è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ubiquito. E l’antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di “costringere gli ebrei a tornare nel loro buco”, risigillando la porta del ghetto.
Ma al di là dell’aderenza storico-politica e dei contrasti religiosi, questa storia è fatta per Bellocchio perché racconta il trauma esistenziale di un’identità negata, e le storture che tale diniego provoca nella vita degli uomini. Ben tre volte (il che equivale ad una sottolineatura indelebile), il montaggio parallelo di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti incatena situazioni opposte: una sessione di preghiere incrociate, l’una che spera, l’altra che inchioda il bambino al suo destino (quando la scena più bella del film è quella in cui il piccolo Edgardo toglie i chiodi dal corpo di Gesù “ucciso dagli ebrei”); un verdetto di tribunale e una cerimonia confirmatoria; un ostinato “ora pro nobis” e un’irruzione della Storia laica.
E per tre volte l’identità di Edgardo verrà nascosta sotto un telo – la gonna della madre, la tonaca del Papa, il lenzuolo del letto del “rapito” – che ogni volta cambieranno il senso e il tono della domanda “Dove è finito Edgardo?”, rimando ad una scena iconica di Fai bei sogni, dove la madre, come qui, era Barbara Ronchi.
Numerose e ripetute sono le situazioni in cui un essere umano viene umiliato: lo strisciare del capo della comunità ebraica romana (un inedito Paolo Calabresi) o il bacio del pavimento della chiesa, con tanto di leccate, sono degni di un film carcerario, di quelli in cui la mortificazione dei sottoposti viene esercitata per ribadirne la condizione sottomessa. Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un “non è successo niente”.